da Natascia Bombardini | Giu 20, 2025 | Liquidazione controllata, Sovraindebitamento
Nell’ambito delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, un recente orientamento giurisprudenziale chiarisce un punto cruciale in tema di responsabilità del debitore: la semplice omissione della dichiarazione di precedenti finanziamenti, da parte del consumatore, non è di per sé sufficiente a dimostrare la sua mala fede o il carattere fraudolento della condotta.
Il principio si fonda su una lettura attenta dell’art. 69 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), che stabilisce una condizione ostativa all’omologazione del piano o dell’accordo qualora risulti che il debitore abbia determinato la propria situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode.
Ciò implica un onere probatorio ben preciso in capo al creditore che intenda opporsi all’omologazione per tali motivi: non è sufficiente provare il comportamento reticente o omissivo del debitore, ma occorre dimostrare che tale condotta abbia avuto un effetto causale diretto sulla formazione del debito complessivo. In altre parole, il creditore deve offrire prova, anche per via indiziaria, non solo della condotta scorretta ma anche del nesso causale tra tale condotta e il sovraindebitamento.
In assenza di tale dimostrazione, non può dirsi integrata la fattispecie impeditiva prevista dal legislatore.
Questo orientamento rappresenta un’importante garanzia per il debitore onesto ma in difficoltà economica: protegge da automatismi che rischierebbero di negare l’accesso agli strumenti di ristrutturazione del debito sulla base di meri sospetti o imperfezioni formali. Al tempo stesso, ribadisce l’importanza di un impianto probatorio solido, ancorato alla reale incidenza delle condotte contestate, a tutela dell’equilibrio tra le parti nel procedimento.
da Natascia Bombardini | Giu 14, 2025 | Crisi d'impresa
È legittima la proposta di concordato minore che prevede l’intervento di un terzo soggetto – il quale, rinunciando al regresso, mette a disposizione della procedura una somma pari al valore dell’abitazione del debitore, oggetto di un’esecuzione forzata. Tale soluzione consente al sovraindebitato di mantenere la proprietà dell’immobile, senza compromettere la tutela dei creditori.
Questa previsione non rientra nell’ambito dell’art. 75, comma 3, del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), né costituisce applicazione diretta del comma 2-bis dello stesso articolo. Tuttavia, è considerata coerente con la logica del concordato minore in continuità e con i principi generali della garanzia patrimoniale.
In particolare, la sostituzione del bene immobile con un apporto di finanza esterna — anche se di valore inferiore alla stima peritale, ma comunque superiore al prezzo base d’asta — non si pone in contrasto con la normativa. Anzi, rappresenta una soluzione equilibrata e sostenibile che tutela sia gli interessi del debitore che quelli dei creditori, offrendo loro un’alternativa concreta e potenzialmente più vantaggiosa rispetto all’esecuzione forzata.
da Natascia Bombardini | Giu 13, 2025 | Crisi d'impresa
Una recente interpretazione della normativa in materia di crisi d’impresa chiarisce un punto importante per i professionisti che, pur avendo cessato la propria attività, intendano definire i debiti contratti in passato. È infatti considerata ammissibile la procedura di concordato minore liquidatorio proposta da un soggetto che, pur avendo operato come professionista (nella specie, un architetto), non è più titolare di partita IVA.
Il chiarimento si fonda sull’interpretazione dell’art. 33, comma 4, del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), che esclude l’accesso al concordato minore solo per l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese, limitando quindi l’inammissibilità a tale specifica categoria. La norma non può essere estesa analogicamente ad altre figure, come appunto i professionisti non più attivi, che non rientrano nella categoria degli imprenditori cessati.
In sintesi, un ex professionista può legittimamente accedere al concordato minore per risolvere le passività maturate durante la propria attività, anche se ha ormai cessato l’attività e chiuso la partita IVA. Questa lettura amplia le possibilità di gestione della crisi per soggetti che operano (o hanno operato) al di fuori del perimetro strettamente imprenditoriale.
Altri articoli sullo stesso tema https://www.sovraindebitamentoecrisidimpresa.it/imprenditore-individuale-cancellato-da-oltre-un-anno/ https://www.sovraindebitamentoecrisidimpresa.it/limprenditore-individuale-cancellato-dal-registro-imprese/
da Natascia Bombardini | Giu 7, 2025 | Crisi d'impresa
Anche l’imprenditore agricolo può accedere al concordato minore, indipendentemente dalle dimensioni della propria attività.
Questa possibilità emerge chiaramente dal combinato disposto dell’art. 74 e dell’art. 2, comma 1, lett. d), del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) dal quale emerge chiaramente che l’imprenditore agricolo, non è soggetto alla liquidazione giudiziale o al concordato preventivo ordinario (riservati agli imprenditori commerciali), ma può chiedere di risolvere la propria situazione di sovraindebitamento, presentando domanda di concordato minore.
Un aspetto rilevante è che non rilevano i requisiti dimensionali, previsti dal CCII all’art. 2, comma 1, lett. d), nn. 1, 2 e 3, che si applicano esclusivamente alle imprese commerciali. Ciò significa che l’imprenditore agricolo, a prescindere dalla grandezza della propria azienda, può presentare domanda di accesso al concordato minore per ristrutturare il proprio debito in modo sostenibile e trasparente.
Questa apertura normativa rappresenta un importante passo avanti verso una maggiore tutela e inclusione del comparto agricolo nel sistema delle procedure di composizione della crisi.
da Natascia Bombardini | Giu 6, 2025 | Ristrutturazione dei debiti del consumatore, Sovraindebitamento
Nel contesto delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento in riferimento al piano di ristrutturazione del consumatore, che rappresenta uno strumento fondamentale per il risanamento delle posizioni debitorie, una delle questioni più rilevanti per i soggetti coinvolti riguarda la durata massima del piano. Siccome la normativa non prevede la durata della procedura, ci si chiede se esiste un limite temporale invalicabile.
In assenza di divieti normativi espressi, la durata del piano di ristrutturazione può superare i cinque anni, a condizione però che ciò sia giustificato da elementi oggettivi. La legge, infatti, non impone un tetto massimo inderogabile, ma affida al giudice e ai professionisti coinvolti il compito di valutare la congruità della proposta rispetto alla situazione specifica del debitore.
I limiti sostanziali: capacità reddituale ed aspettativa di vita
Il principio guida nella determinazione della durata del piano è la sostenibilità economica dello stesso. In altre parole, la proposta deve essere coerente con:
- La capacità reddituale del debitore, ovvero la reale possibilità di produrre un reddito sufficiente a soddisfare, seppur parzialmente, i creditori secondo i termini del piano;
- L’aspettativa di vita, intesa non solo in senso anagrafico, ma anche in relazione alla condizione lavorativa, alla salute e ad altri fattori personali che possano influire sulla durata dell’impegno.
In questo senso, la durata del piano non è arbitraria: un piano eccessivamente lungo, che vada oltre le possibilità del debitore di rispettarlo, sarebbe considerato inammissibile, anche in mancanza di limiti normativi espressi.
Una maggiore tutela per il debitore meritevole
La possibilità di estendere la durata del piano oltre il quinquennio consente una maggiore flessibilità e tutela per il debitore meritevole, ovvero colui che si trova in una condizione di difficoltà non imputabile a dolo o colpa grave. Questa apertura è coerente con lo spirito della normativa sul sovraindebitamento, che mira a offrire una seconda possibilità a chi si trovi in una situazione di crisi irreversibile.
Conclusioni
In definitiva, la durata del piano di ristrutturazione del consumatore può superare i cinque anni, a patto che sia giustificata dalla capacità economica del debitore e compatibile con la sua condizione personale. Non esistendo un limite rigido imposto dalla legge, è fondamentale che ogni proposta sia costruita su basi realistiche e documentate, per garantire non solo l’approvazione del piano, ma anche la sua concreta realizzazione.