da Natascia Bombardini | Giu 13, 2025 | Crisi d'impresa
Una recente interpretazione della normativa in materia di crisi d’impresa chiarisce un punto importante per i professionisti che, pur avendo cessato la propria attività, intendano definire i debiti contratti in passato. È infatti considerata ammissibile la procedura di concordato minore liquidatorio proposta da un soggetto che, pur avendo operato come professionista (nella specie, un architetto), non è più titolare di partita IVA.
Il chiarimento si fonda sull’interpretazione dell’art. 33, comma 4, del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), che esclude l’accesso al concordato minore solo per l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese, limitando quindi l’inammissibilità a tale specifica categoria. La norma non può essere estesa analogicamente ad altre figure, come appunto i professionisti non più attivi, che non rientrano nella categoria degli imprenditori cessati.
In sintesi, un ex professionista può legittimamente accedere al concordato minore per risolvere le passività maturate durante la propria attività, anche se ha ormai cessato l’attività e chiuso la partita IVA. Questa lettura amplia le possibilità di gestione della crisi per soggetti che operano (o hanno operato) al di fuori del perimetro strettamente imprenditoriale.
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da Natascia Bombardini | Giu 7, 2025 | Crisi d'impresa
Anche l’imprenditore agricolo può accedere al concordato minore, indipendentemente dalle dimensioni della propria attività.
Questa possibilità emerge chiaramente dal combinato disposto dell’art. 74 e dell’art. 2, comma 1, lett. d), del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) dal quale emerge chiaramente che l’imprenditore agricolo, non è soggetto alla liquidazione giudiziale o al concordato preventivo ordinario (riservati agli imprenditori commerciali), ma può chiedere di risolvere la propria situazione di sovraindebitamento, presentando domanda di concordato minore.
Un aspetto rilevante è che non rilevano i requisiti dimensionali, previsti dal CCII all’art. 2, comma 1, lett. d), nn. 1, 2 e 3, che si applicano esclusivamente alle imprese commerciali. Ciò significa che l’imprenditore agricolo, a prescindere dalla grandezza della propria azienda, può presentare domanda di accesso al concordato minore per ristrutturare il proprio debito in modo sostenibile e trasparente.
Questa apertura normativa rappresenta un importante passo avanti verso una maggiore tutela e inclusione del comparto agricolo nel sistema delle procedure di composizione della crisi.
da Natascia Bombardini | Giu 6, 2025 | Ristrutturazione dei debiti del consumatore, Sovraindebitamento
Nel contesto delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento in riferimento al piano di ristrutturazione del consumatore, che rappresenta uno strumento fondamentale per il risanamento delle posizioni debitorie, una delle questioni più rilevanti per i soggetti coinvolti riguarda la durata massima del piano. Siccome la normativa non prevede la durata della procedura, ci si chiede se esiste un limite temporale invalicabile.
In assenza di divieti normativi espressi, la durata del piano di ristrutturazione può superare i cinque anni, a condizione però che ciò sia giustificato da elementi oggettivi. La legge, infatti, non impone un tetto massimo inderogabile, ma affida al giudice e ai professionisti coinvolti il compito di valutare la congruità della proposta rispetto alla situazione specifica del debitore.
I limiti sostanziali: capacità reddituale ed aspettativa di vita
Il principio guida nella determinazione della durata del piano è la sostenibilità economica dello stesso. In altre parole, la proposta deve essere coerente con:
- La capacità reddituale del debitore, ovvero la reale possibilità di produrre un reddito sufficiente a soddisfare, seppur parzialmente, i creditori secondo i termini del piano;
- L’aspettativa di vita, intesa non solo in senso anagrafico, ma anche in relazione alla condizione lavorativa, alla salute e ad altri fattori personali che possano influire sulla durata dell’impegno.
In questo senso, la durata del piano non è arbitraria: un piano eccessivamente lungo, che vada oltre le possibilità del debitore di rispettarlo, sarebbe considerato inammissibile, anche in mancanza di limiti normativi espressi.
Una maggiore tutela per il debitore meritevole
La possibilità di estendere la durata del piano oltre il quinquennio consente una maggiore flessibilità e tutela per il debitore meritevole, ovvero colui che si trova in una condizione di difficoltà non imputabile a dolo o colpa grave. Questa apertura è coerente con lo spirito della normativa sul sovraindebitamento, che mira a offrire una seconda possibilità a chi si trovi in una situazione di crisi irreversibile.
Conclusioni
In definitiva, la durata del piano di ristrutturazione del consumatore può superare i cinque anni, a patto che sia giustificata dalla capacità economica del debitore e compatibile con la sua condizione personale. Non esistendo un limite rigido imposto dalla legge, è fondamentale che ogni proposta sia costruita su basi realistiche e documentate, per garantire non solo l’approvazione del piano, ma anche la sua concreta realizzazione.
da Natascia Bombardini | Mag 31, 2025 | Ristrutturazione dei debiti del consumatore, Sovraindebitamento
Nel procedimento di ristrutturazione dei debiti del consumatore, disciplinato dall’articolo 67 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. n. 14/2019, c.d. CCII), è previsto un meccanismo volto a garantire la partecipazione attiva dei creditori nella valutazione della proposta avanzata dal debitore. A tal fine, l’articolo 70, comma 3, CCII, stabilisce che i creditori hanno a disposizione un termine di venti giorni per formulare osservazioni o contestazioni.
Sebbene la norma non qualifichi espressamente tale termine come perentorio, la giurisprudenza e la dottrina più avveduta ne riconoscono la natura ordinatoria, ossia funzionale al regolare e ordinato svolgimento del procedimento. La mancata previsione della perentorietà non implica, infatti, che il decorso del termine sia del tutto irrilevante o privo di conseguenze. Al contrario, la scadenza del termine senza l’intervento di un’istanza di proroga impedisce la valida proposizione di osservazioni o contestazioni tardive, le quali devono ritenersi inammissibili.
In questo contesto, assume rilevanza l’articolo 154 del codice di procedura civile, il quale consente la proroga dei termini ordinatori solo se la relativa richiesta viene presentata prima della loro scadenza. Applicando tale principio alla ristrutturazione dei debiti del consumatore, si deve concludere che i venti giorni previsti per l’intervento dei creditori possono sì essere prorogati, ma solo su istanza tempestiva, ovvero anteriormente alla scadenza del termine stesso.
Pertanto, in assenza di una richiesta di proroga presentata nei termini di legge, qualsiasi osservazione o contestazione – anche riferita al parametro della convenienza – proposta oltre il limite temporale fissato dall’art. 70, co. 3, CCII, risulta irricevibile, e dunque non può essere presa in considerazione dal giudice nella fase di omologazione della proposta. La tardività comporta quindi una decadenza sostanziale dal potere di contestare, a tutela della certezza e speditezza del procedimento.
In sintesi, sebbene il termine di venti giorni non sia formalmente qualificato come perentorio, la sua osservanza è comunque obbligatoria ai fini della ritualità della partecipazione procedimentale dei creditori. Solo il rispetto del termine, o una sua proroga tempestivamente ottenuta, consente l’ammissione delle osservazioni nel giudizio.
da Natascia Bombardini | Mag 30, 2025 | Liquidazione controllata, Sovraindebitamento
Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019), la liquidazione controllata ha sostituito la vecchia liquidazione del patrimonio prevista dalla Legge sul sovraindebitamento. Si tratta di una procedura destinata ai soggetti non fallibili (come persone fisiche, professionisti, imprenditori sotto soglia), volta a soddisfare i creditori attraverso la vendita dei beni del debitore sotto la supervisione del tribunale.
Uno degli aspetti centrali della procedura è la liquidazione dell’attivo, ovvero la vendita dei beni del debitore.
Il tribunale, con il decreto di apertura della liquidazione controllata, nomina un liquidatore, al quale compiti fondamentali tra cui:
- La redazione dell’inventario dei beni;
- La gestione e custodia dei beni;
- La programmazione e realizzazione delle vendite.
Le vendite non possono essere effettuate liberamente, ma devono seguire criteri di trasparenza, pubblicità e massimizzazione del ricavato.
Le vendite possono avvenire con le seguenti modalità:
- All’asta pubblica: è la modalità preferenziale, per garantire concorrenza e trasparenza.
- Tramite trattativa privata, solo se autorizzata dal giudice, ad esempio per beni di scarso valore o in caso d’urgenza.
- Con affidamento a soggetti specializzati (es. portali di aste telematiche), per aumentare la visibilità e l’efficienza del processo.
Ciò al fine di rispettare alcune tutele, in particolare:
- Pubblicità: Le vendite devono essere adeguatamente pubblicizzate, soprattutto per i beni immobili o di valore rilevante.
- Stima: Il liquidatore deve avvalersi, se necessario, di periti o esperti per determinare il valore dei beni.
- Divieto di vendita sottocosto: Le offerte inferiori al valore stimato possono essere accettate solo in casi motivati e previa autorizzazione.
La vendita effettuata nell’ambito della liquidazione controllata ha effetti liberatori per l’acquirente:
- Trasferisce la proprietà del bene libero da vincoli, ipoteche o pignoramenti (salvo diversa previsione).
- Estingue eventuali diritti di prelazione (es. ipoteche) sul bene, trasferendoli sul prezzo ricavato.
Questo garantisce maggiore appetibilità all’acquisto e tutela gli interessi del ceto creditorio.
Il ricavato delle vendite è destinato:
- Al pagamento delle spese della procedura;
- Alla soddisfazione dei creditori secondo il piano di riparto predisposto dal liquidatore e approvato dal giudice.
Nel caso resti un’eccedenza dopo il pagamento integrale dei creditori, questa può tornare al debitore.
Conclusioni
La vendita dei beni nella liquidazione controllata è un momento cruciale della procedura, disciplinato da norme rigorose che garantiscono trasparenza, correttezza e massimizzazione del valore per i creditori. Il coinvolgimento del giudice e del liquidatore professionale serve a evitare abusi e a preservare la fiducia nella procedura, rendendola uno strumento efficace anche per chi non ha accesso alle procedure fallimentari tradizionali.